Si arriva di notte nella Ciudad.
Uno stuolo di lumini ti accoglie dai finestrini dell’aereo, non capisci se stai atterrando o se andrai a perderti nelle stelle, stremato da un volo intercontinentale di più di 10 ore.
Sei in alto, oltre i 2000, ma non capisci: c’è acqua, c’è smog, sempre. Un altopiano. Forse. Non sapresti dire se è freddo o caldo. Ma una giacca ci sta. Una divisa la Ciudad la merita, anche se non sa cosa farsene.
Un mostro, soprattutto una chimera. Il luogo dove gli Aztechi, guerrieri ladri di cultura maya, avevano visto l’aquila divorare il serpente sulla pianta di fichi d’India (ovvero un nopal). Quanta gente ci abiti non lo sa davvero nessuno. Ventidue milioni. Forse. Dodici linee di metropolitana. L’ora di minor traffico? Forse l’ultimo a vederla è stato Cortez. O Peppino Garibaldi, il nipote. Perché qui il concetto di generazione successiva è quello dominante. Meticci, mulatti, creoli, e via dicendo.
Tutto è di seconda mano, dal maggiolone verde dei taxi alla Virgen de Guadalupe. Miti e tradizioni si sono qui rifusi e fatti nuovi nel sangue. La Piazza delle tre culture, stratificazione di culti, di storia e di cadaveri rossi della vergogna dei governi istituzionalmente rivoluzionari.
Un luogo dove una stada (Insurgentes) può essere lunga cinquanta chilometri, ma nessuno si perde. Perché in ogni formicaio ognuno ha il suo posto. Anche l’ultima coppia arrivata, che si aggira nel centro (Zòcalo) di notte, una mano nell’altra, l’opposta nelle tasche, gli occhi grandi e il passo più leggero che si può. Per non sprofondare nella palude e risvegliare la città-chimera che respira profonda nel buio, che nero non sarà mai.
1 commento:
e poi e poi?
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