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mercoledì, marzo 11, 2009

IL PREMIO DELLA FEDE

Per un incontro scout di Zona, riflessione sulla seconda lettera di San Paolo a Timoteo, 4, 6-8.

Le due lettere a Timoteo, futuro vescovo di Efeso, e quella a Tito, suo omologo a Creta, vengono dette “pastorali”. Invece di rivolgersi ad una comunità l’apostolo Paolo detta insegnamenti a chi dovrà sostituirlo nella guida di esse. Il cambio di prospettiva nella stesura, così come alcune particolarità linguistiche hanno fatto a lungo discutere gli studiosi sulla corretta attribuzione dell’autore. La chiesa protestante infatti non le riconosce, puntando sul fatto che un certo stile monotono, moralizzante ed intriso di riferimenti allo gnosticismo non sia così paolino. Non entrando ulteriormente nel complesso campo, ma volendo riconoscere la lettera come autentica, essa va ragionevolmente datata al 67 d. C., nel momento più tragico della vita di Paolo. Rinchiuso a Roma in attesa di un giudizio difficile da non immaginare come mortale, sostanzialmente abbandonato da tutti i suoi collaboratori, tranne Luca, l’apostolo appare più umano che mai, sentendo la fine, rivelandosi a tratti malinconico e sperando che il fedele discepolo lo possa raggiungere prima dell’inverno.

6 Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. 7 Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. 8 Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.

Questo è il testo nella recente versione ufficiale della C.E.I.
Vale la pena notare i punti in cui la traduzione si discosta dalla versione della Bibbia di Gerusalemme che tutti conosciamo. In particolare il versetto 6 era tradotto: “Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele”. L’immagine risultava forse di maggiore impatto: tale differenza deriva dalla difficile traducibilità del testo originale greco. La seconda parte della frase in latino viene tradotta dalla Vulgata con “tempus meae resolutionis instat”. Il termine “resolutio” recupera il verbo “analùo” dell’originale greco e rappresenta l’idea di scioglimento di nodi e vele in vista della partenza di una nave. Il “rover” per eccellenza recupera per la sua dipartita i termini propri di chi ha vissuto l’avventura della vita con l’animo del viandante e del marinaio. Quello che però si perde nella traduzione (momento in italiano, tempus in latino) è la parola kairòs (“o kairòs tès emès analuséos mou efestèken”). La parola kairòs nell’antica Grecia significa “momento giusto o opportuno” o “tempo di Dio”. Gli antichi greci avevano due parole per il tempo: krònos e kairòs. Mentre la prima si riferisce al tempo logico e sequenziale, la seconda significa “un tempo nel mezzo”, un momento all’interno di un periodo in cui qualcosa di “speciale” accade. Mentre krònos è quantitativo, kairòs ha natura qualitativa. E’ il momento “cruciale”, quello in cui la croce di Cristo modifica per sempre la storia, spezzando un andamento circolare e creando un prima e un dopo, ma soprattutto un già e un non ancora.
Per Paolo non solo è il momento, ma è quello opportuno, il tempo di chi già lo ha salvato mettendolo in condizione di cogliere al termine della sua corsa terrena il “premio della fede”, rendendolo una delle anime che come una corona cingono Dio per l’eternità.
Questi versetti restituiscono a noi un’immagine per certi aspetti romantica: quella di un viaggiatore di fronte alla più dura delle tempeste che trova nell’approdo finale la ragione di mettersi per mare. Qui davvero capiamo perché nelle catacombe si ritrovi il simbolo dell’ àncora come simbolo della salvezza nella fede, dell’anima che ha felicemente raggiunto il porto.
Di fronte ad una sorta di identico destino una delle più importanti figure mistiche del Novecento trova la stessa forza. Di Etty Hillesum, ebrea morta ad Auschwitz nel 1943, abbiamo oggi alcune sue lettere ed un diario degli ultimi anni della sua vita. Nelle lettere troviamo la stessa mite forza di chi combatte la buona battaglia: “Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità, Maria – devo ritornare su questo punto. E se solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani, Maria.” (lettera a Maria Tuinzig, 2 settembre 1943). La stessa saldezza troviamo nei suoi diari di fronte al mare agitato del suo tempo: “Sabato sera. Credo di poter sopportare e accettare ogni cosa di questa vita e di questo tempo. E quando la burrasca sarà troppo forte e non saprò più come uscirne, mi rimarranno sempre due mani giunte e un ginocchio piegato … Com’è strana la mia storia – la storia della ragazza che non sapeva inginocchiarsi. O con una variante: della ragazza che aveva imparato a pregare. E’ il mio gesto più intimo, ancor più intimo dei gesti che ho per un uomo…” (ottobre 1942).

mercoledì, maggio 28, 2008

Da Sodoma a Gomorra

"Salò o le centoventi giornate di Sodoma" è un film del 1976.
Negli ultimi giorni si è detto e scritto di "Gomorra" che, un po' sull'onda del successo di Cannes, "era tempo che in Italia non comparivano film così". Duri, realistici, di denuncia, epocali o visionari.
Il sentimento più forte che mi ha suscitato la trasposizione in immagini del libro di Saviano è un'enorme incazzatura. Dalla prima inquadratura a quella di una ruspa che trasporta i corpi di due ragazzi ci si sente montare dentro una rabbia sorda. E poi disagio e inquietudine.
Pier Paolo Pasolini nel suo Sodoma in qualche modo ha trovato la morte e quel film postumo è, sebbene molto diverso, qualcosa che, al di là del gioco di parole, si lega al messaggio di Gomorra.
In entrambi la violenza è talmente tanta da sembrare innaturale, laddove il "potere" deumanifica. In uno il sesso nell'altro il denaro arrivano a ricoprire quel ruolo metaforico orribile che è in essi consustanziato. In entrambi i corpi si sfigurano nell'amoralità che rappresentano.
E il messaggio è lo stesso: state attenti, il vero sfacelo del nostro Paese è "culturale e antropologico", come sosteneva Pasolini ormai più di trent'anni fa.
I camorristi sono talmente alieni nella loro crudeltà e svuotati da ogni speranza da essere incomprensibili. E giuro che sì l'ho pensato. Lasciamoli perdere. Perchè tanta verità suscita indifferenza. E perché tutto quello che passa su uno schermo (leggasi ad esempio un governo qualsiasi) anche se è vero lo posso spegnere con un click.
Lo stesso click che aziona una pistola.
Senza numero di matricola, troppo spesso nelle mani di ragazzini che non hanno scampo a Scampia.
Guardiamolo "Gomorra", riguardiamoci i film che "era un po' che non giravano più".
Accendiamo la memoria, spegniamo lo schermo.
E tiriamo nel mondo reale chi si perde nei televisori.
Quelli dove si può dire "vogliamo riportare i fiori al posto dell'immondizia".
E trovare gente che ci crede davvero.

mercoledì, maggio 07, 2008

La Ciudad

Si arriva di notte nella Ciudad.

Uno stuolo di lumini ti accoglie dai finestrini dell’aereo, non capisci se stai atterrando o se andrai a perderti nelle stelle, stremato da un volo intercontinentale di più di 10 ore.

Sei in alto, oltre i 2000, ma non capisci: c’è acqua, c’è smog, sempre. Un altopiano. Forse. Non sapresti dire se è freddo o caldo. Ma una giacca ci sta. Una divisa la Ciudad la merita, anche se non sa cosa farsene.

Un mostro, soprattutto una chimera. Il luogo dove gli Aztechi, guerrieri ladri di cultura maya, avevano visto l’aquila divorare il serpente sulla pianta di fichi d’India (ovvero un nopal). Quanta gente ci abiti non lo sa davvero nessuno. Ventidue milioni. Forse. Dodici linee di metropolitana. L’ora di minor traffico? Forse l’ultimo a vederla è stato Cortez. O Peppino Garibaldi, il nipote. Perché qui il concetto di generazione successiva è quello dominante. Meticci, mulatti, creoli, e via dicendo.

Tutto è di seconda mano, dal maggiolone verde dei taxi alla Virgen de Guadalupe. Miti e tradizioni si sono qui rifusi e fatti nuovi nel sangue. La Piazza delle tre culture, stratificazione di culti, di storia e di cadaveri rossi della vergogna dei governi istituzionalmente rivoluzionari.

Un luogo dove una stada (Insurgentes) può essere lunga cinquanta chilometri, ma nessuno si perde. Perché in ogni formicaio ognuno ha il suo posto. Anche l’ultima coppia arrivata, che si aggira nel centro (Zòcalo) di notte, una mano nell’altra, l’opposta nelle tasche, gli occhi grandi e il passo più leggero che si può. Per non sprofondare nella palude e risvegliare la città-chimera che respira profonda nel buio, che nero non sarà mai.

domenica, febbraio 24, 2008

Se sei figlia della solita illusione...

Confusione è una brutta parola con un bel significato. Caos Calmo è un bellissimo concetto con un mediocre romanzo e un brutto film alle spalle.
Insomma si può dire come mi sento con brutte parole che non rendono la qualità del vivere, oppure buttarla sull'esistenziale, calarsi in un dannatamente stupendo contorto pensiero e poi dirsi che non si sta poi così male.
Come la giro sto esattamente come vorrei, volendo stare diversamente.

E in questo dilemma l'unica luce la trovo in Elio, l'unico capace di cogliere appieno il dilemma tra la scelta del mare e l'imperativo della montagana:
"Ah in montagna ci si rompe il cazzo
Al mare c’è l’afa, ai monti il puma feroce
Che vuole ucciderci;
Sì l’ho visto ieri a Quark." (Ignudi tra i nudisti)

martedì, gennaio 15, 2008

Via dell'epoché, numero 20, interno 08.

Il 2008 è l'anno dei segni di terra. Capricorno, Vergine, Toro. Sicchè, appartenendo io a quest'ultimo, dovrei passare ognuno di questi giorni a raccogliere i frutti di anni di opposizioni e quadrature astrali, godendo di trigoni più accoglienti di quelli - perdonatemi - rintracciabili tra le coscie di una bella donna.
Mi dovrebbe girar bene, dicono.
Vi devo confessare una cosa: non lo so. Già sarebbe tanto potersi lamentare. Ma, forse, non si può. Perchè alcune cose, importantissime, stanno viaggiando. Con ritmi impetuosi, tanto da togliere il fiato, e persino la possibilità di scriverne qui sopra. Però qui tra i blog giro, guardo, stringatamente commento (perchè non sono un maledetto lurker, un po' di netiquette, please). Guardo però un po' di traverso, vorrei ma anche no, arredo la mia bolla. Insomma sto campando nell'epoché fenomenologica, sospendo il giudizio e scorro, forse cercando di capire perchè questo inizio anno mi vede così stranito. E' pieno il mondo di cose che mi rendono perplesso e un po' per-lesso, ultra-cotto. Guardo dall'interno i miei estremismi, cullo tra me e me il mio razzismo, la mia omofobia e vedo che i vestiti di tolleranza e poli-pride con cui li avevo rivestiti stanno stretti. Li lascio girare scalzi nella mia testa e d'improvviso, proprio quando mi scopro intriso di pregiudizi, mi pare davvero di poter andare oltre.
Oggi però la giornata me l'ha salvata un disco, questo.
Perchè ho scoperto che nella mia bolla non sono solo. Che ci sono dei grandi che sono sopravvissuti agli anni Ottanta, hanno da tempo lasciato da parte un nome imbarazzante come Japan (dove al massimo oggi uno ti può rispondere: "chi? i Tokio Hotel, vuoi dire...") e continuano a suonare con altri nomi, altri circuiti, altra voglia di piacere, soprattutto a se stessi e a chi ha voglia di stargli dietro.
In un mondo in cui la vera arte è diventata una sola: quella del dis-apparire.