
(Michelangelo Merisi da Caravaggio, a Roma nel 1600-1601, olio su tela 107X146 cm, conservato alla
Bildergalerie del parco di Sanssouci a Potsdam)
“L’uomo, nel conoscere Dio con la sola luce della ragione, incontra molte difficoltà. Inoltre non può entrare da solo nell’intimità del mistero divino…” (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, 2005)
“Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”. (Giovanni, 20, 26-29)
L’episodio di Tommaso è in qualche modo il suggello della missione apostolica. In Giovanni è il terzo momento in cui Cristo si manifesta e invita alla predicazione dopo l’incontro. Maria di Magdala fuori dal sepolcro, i discepoli la sera stessa, Tommaso otto giorni dopo. Altri evangelisti inseriscono anche nel mezzo l’episodio dei discepoli di Emmaus, il riconoscimento nello spezzare il pane.
Sono tre movimenti diversi. Maria non capisce subito e Cristo è sfuggente, non può essere trattenuto (“Noli me tangere”), si percepisce l’urgenza di tornare al Padre. Con i discepoli, di Emmaus o meno, si fa riconoscere e porta il mistero del Padre al mondo con l’Eucarestia e “alitando” sui discepoli. In Tommaso Cristo avvicina l’uomo, lo prende per mano e compie quello che l’uomo non può fare con la sola luce della ragione. Lo fa letteralmente penetrare nella sua intimità affinché creda e, credendo, abbia “la vita nel suo nome” (Giovanni 20, 31).
Caravaggio, artista grande quanto controverso, personaggio burrascoso, sanguigno e che non mancava di frequentare ogni angolo di mondo, compresi postriboli, campi di pallacorda e galere, conosceva però bene i racconti evangelici attorno alla resurrezione. Il cardinale Francesco Maria del Monte fu il suo primo grande committente e protettore durante il periodo romano e fu grazie a lui che dipinse i dipinti sulla vita di San Matteo (la vocazione e il martirio) che chiunque abbia una mezza giornata libera a Roma può andare a vedere alla Chiesa di San Luigi ai Francesi, a due passi dal Pantheon. Quei dipinti intorno all’Anno Santo 1600 lo resero famoso, gli diedero la possibilità di passare a soggetti impegnativi quale la Conversione di San Paolo, San Matteo e l’Angelo. Peccato che il suo modo di intendere l’arte passasse dalla strada. E la crudezza del suo dipingere non sempre piacesse ai suoi committenti. Ma personaggi come il Marchese Giustiniani lo accolsero sotto la loro ala e furono i committenti del quadro che stiamo esaminando così come di almeno una delle due scene dei Discepoli di Emmaus che egli dipinse sempre in quegli anni. I suoi modelli erano gente semplice, spesso “intercambiabile”. Il discepolo anziano sullo sfondo del nostro quadro è la stessa persona che tiene il cavallo di San Paolo e il discepolo dalle mani sgraziate (forse Pietro) ad Emmaus. Tommaso e i due discepoli sullo sfondo sono quindi persone comuni. Il taglio “americano” dell’nquadratura, tipico della pittura veneta del tempo, ci restituisce nel rosso-bruno della tela tre figure abbigliate con le vesti di tutti i giorni. Increduli e protesi verso il Cristo sembrano tre anatomo-patologi attorno ad un tavolo settorio. Il testone di Tommaso (il cui nome vero poi forse era Giuda) si piazza proprio nel mezzo della tela ed ha lo sguardo di chi si sforza di guardare oltre, di integrare ciò che vede con l’attenta percezione tattile che sta facendo, guidato dalla mano stessa del Cristo.
Cristo che qui ha abiti solenni ma la sembianza del cadavere morto in croce. Non è lo sbarbatello ringiovanito che inganna i discepoli di Emmaus nell’altro dipinto coevo del Caravaggio. E’ proprio lui e viene dal buio del sepolcro per proiettarsi nella luce della resurrezione. E’ la cifra stilistica dell’autore, il suo estremo chiaroscuro. O come gli fa dire Camilleri nella finzione del suo recente romanzo “Il colore del sole” l’ossessione del sole nero. Ed è inquietante il realismo del cadavere color avorio. “…Forse solo chi ha dato la morte sa dipigner la verità della morte” fa pronunciare all’assassino Caravaggio la penna di Camilleri.
San Tommaso darà origine ad un vangelo gnostico, al racconto degli atti della sua predicazione in India, rimarrà l’emblema dello scetticismo non credendo neppure all’Assunzione in Cielo di Maria fino a che non gli cadrà in testa la sua cintura, morirà martire a colpi di lancia, ma sarà considerato ancora oggi patrono dei giudici e protettore dalle malattie degli occhi. Perché lui ha visto con gli occhi e con il cuore.
Il gesto del suo dito (ora reliquia nella Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma dove la tradizione vuole che lo portasse nel 320 d.C. la madre dell’imperatore Costantino il Grande) è quasi un atto medico, un gesto di guarigione che il Cristo fa nei confronti dell’Uomo. Facendogli toccare la sua ferita gli dona un’ultima “Beatitudine”: “beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”
E’ un’immagine archetipica, direbbe Jung. Come il centauro Chirone, figlio di Cronos e maestro di Asclepio, il papà della medicina. Egli curava i suoi pazienti con il pus che sgorgava da una piaga insanabile nel suo ginocchio. E’ il mito del “guaritore ferito”, quello a cui fece riferimento il secolo scorso anche il prete olandese Henrri Nouwen parlando del “ministero nella società contemporanea”. E’ nella nostra debolezza che si incontra l’altro. E’ sul piano della comune sofferenza che spesso si comunica come em-patia.Ed è portandoci con sé dentro la ferita che insanguina la Storia che il Cristo ci può parlare ed essere capito. A noi non è dato di “mettere il dito” come Tommaso. E’ dentro le nostre ferite, sia quelle fisiche che quelle della nostra limitata ragione, che dobbiamo entrare. E una volta lì, se abbiamo fede, la mano di Cristo ci porterà da lui oltre la carne.
Sono tre movimenti diversi. Maria non capisce subito e Cristo è sfuggente, non può essere trattenuto (“Noli me tangere”), si percepisce l’urgenza di tornare al Padre. Con i discepoli, di Emmaus o meno, si fa riconoscere e porta il mistero del Padre al mondo con l’Eucarestia e “alitando” sui discepoli. In Tommaso Cristo avvicina l’uomo, lo prende per mano e compie quello che l’uomo non può fare con la sola luce della ragione. Lo fa letteralmente penetrare nella sua intimità affinché creda e, credendo, abbia “la vita nel suo nome” (Giovanni 20, 31).
Caravaggio, artista grande quanto controverso, personaggio burrascoso, sanguigno e che non mancava di frequentare ogni angolo di mondo, compresi postriboli, campi di pallacorda e galere, conosceva però bene i racconti evangelici attorno alla resurrezione. Il cardinale Francesco Maria del Monte fu il suo primo grande committente e protettore durante il periodo romano e fu grazie a lui che dipinse i dipinti sulla vita di San Matteo (la vocazione e il martirio) che chiunque abbia una mezza giornata libera a Roma può andare a vedere alla Chiesa di San Luigi ai Francesi, a due passi dal Pantheon. Quei dipinti intorno all’Anno Santo 1600 lo resero famoso, gli diedero la possibilità di passare a soggetti impegnativi quale la Conversione di San Paolo, San Matteo e l’Angelo. Peccato che il suo modo di intendere l’arte passasse dalla strada. E la crudezza del suo dipingere non sempre piacesse ai suoi committenti. Ma personaggi come il Marchese Giustiniani lo accolsero sotto la loro ala e furono i committenti del quadro che stiamo esaminando così come di almeno una delle due scene dei Discepoli di Emmaus che egli dipinse sempre in quegli anni. I suoi modelli erano gente semplice, spesso “intercambiabile”. Il discepolo anziano sullo sfondo del nostro quadro è la stessa persona che tiene il cavallo di San Paolo e il discepolo dalle mani sgraziate (forse Pietro) ad Emmaus. Tommaso e i due discepoli sullo sfondo sono quindi persone comuni. Il taglio “americano” dell’nquadratura, tipico della pittura veneta del tempo, ci restituisce nel rosso-bruno della tela tre figure abbigliate con le vesti di tutti i giorni. Increduli e protesi verso il Cristo sembrano tre anatomo-patologi attorno ad un tavolo settorio. Il testone di Tommaso (il cui nome vero poi forse era Giuda) si piazza proprio nel mezzo della tela ed ha lo sguardo di chi si sforza di guardare oltre, di integrare ciò che vede con l’attenta percezione tattile che sta facendo, guidato dalla mano stessa del Cristo.
Cristo che qui ha abiti solenni ma la sembianza del cadavere morto in croce. Non è lo sbarbatello ringiovanito che inganna i discepoli di Emmaus nell’altro dipinto coevo del Caravaggio. E’ proprio lui e viene dal buio del sepolcro per proiettarsi nella luce della resurrezione. E’ la cifra stilistica dell’autore, il suo estremo chiaroscuro. O come gli fa dire Camilleri nella finzione del suo recente romanzo “Il colore del sole” l’ossessione del sole nero. Ed è inquietante il realismo del cadavere color avorio. “…Forse solo chi ha dato la morte sa dipigner la verità della morte” fa pronunciare all’assassino Caravaggio la penna di Camilleri.
San Tommaso darà origine ad un vangelo gnostico, al racconto degli atti della sua predicazione in India, rimarrà l’emblema dello scetticismo non credendo neppure all’Assunzione in Cielo di Maria fino a che non gli cadrà in testa la sua cintura, morirà martire a colpi di lancia, ma sarà considerato ancora oggi patrono dei giudici e protettore dalle malattie degli occhi. Perché lui ha visto con gli occhi e con il cuore.
Il gesto del suo dito (ora reliquia nella Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma dove la tradizione vuole che lo portasse nel 320 d.C. la madre dell’imperatore Costantino il Grande) è quasi un atto medico, un gesto di guarigione che il Cristo fa nei confronti dell’Uomo. Facendogli toccare la sua ferita gli dona un’ultima “Beatitudine”: “beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”
E’ un’immagine archetipica, direbbe Jung. Come il centauro Chirone, figlio di Cronos e maestro di Asclepio, il papà della medicina. Egli curava i suoi pazienti con il pus che sgorgava da una piaga insanabile nel suo ginocchio. E’ il mito del “guaritore ferito”, quello a cui fece riferimento il secolo scorso anche il prete olandese Henrri Nouwen parlando del “ministero nella società contemporanea”. E’ nella nostra debolezza che si incontra l’altro. E’ sul piano della comune sofferenza che spesso si comunica come em-patia.Ed è portandoci con sé dentro la ferita che insanguina la Storia che il Cristo ci può parlare ed essere capito. A noi non è dato di “mettere il dito” come Tommaso. E’ dentro le nostre ferite, sia quelle fisiche che quelle della nostra limitata ragione, che dobbiamo entrare. E una volta lì, se abbiamo fede, la mano di Cristo ci porterà da lui oltre la carne.
9 commenti:
Le dico la verita, in questo momento mi trovo in seria difficoltà ad esprimere il mio commento sul post.
Però torno che caravaggio mi piace e se devo dirla tutta pure San Tommaso"!
Capitana
Come appare in categoria è un po' una psicopompa. Comunque è anche questo un modo di scrivere che mi caratterizza, non tanto in ambito blog ma in altri aspetti della mia vita che ho spesso tenuto più privati. Sta volta ho voluto provato a postare una cosa così. Ci avevo voglia di farlo...
NO beh ha fatto bene, l'ho letto con piacere (concentrazione forse un po' scarsa ma lei sa il perchè)
Cap
ha fatto bene, ma mi sento in dovere, in quanto rappresentante sindacale dei Ciecati D'Itaglia Uniti che se per sbaglio lei mettesse mano al template ingrandendo i pixel del font ecco, ehm, ecco, 'nzomma, non ci leggo 'na cippa.
Rael salve...io me lo son stampato ehe
Capitana
Portate pazienza. E' importante vedere col cuore e meno con gli occhi come Tommaso.
Stampato mi sembra persin troppo cara capitana, quanta importanza che da alle mie menate. Mi lusinga. Tanto.
ehssu
Capitana
vabè.
uffi.
stampo.
però alllei la ci voglio alla libreria il 23 marzo.
si ricordi.
Mi ricordi poi solo quale libreria è e ci sarò!
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