domenica, gennaio 10, 2010

HEVEL HAVALIM

Ci sono notizie che non sai interpretare.

Il segretario di stato americano è andato in conferenza stampa a dire che il discorso sullo stato dell’Unione 2010 (un po’ come il discorso di Napolitano di fine anno, ma con una rilevanza mondiale cento volte tanto), Obama lo pronuncerà dopo la prima puntata della sesta stagione di Lost, così da non impedire a nessuno di vederla (e utilizzando il traino televisivo, come se parlasse dopo Striscia la notizia).

Lost lo adoro, ritengo sia a modo suo letteratura per immagini contemporanea. Ho spesso pensato che dovesse essere utilizzato come strumento didattico per spiegare come si possa costruire una narrazione semplicemente per il gusto di raccontarla. E’ un bignami perfetto per le figure retoriche, per la sintassi dell’intreccio narrativo e utilizza per la prima volta su uno schermo con consistenza e freschezza la figura della prolessi o flashforward (il ricordo del futuro).

Però.

Però ci sono cose più serie. E, persino nei miei ricordi di bambino, il discorso sullo stato dell’Unione lo era. Ancor più dovrebbe esserlo oggi, dal momento che, volenti o nolenti, della periferia di quella Unione ne facciamo parte anche noi.

Perdo colpi.

No, non è lagnanza. Però li perdo.

Ogni tanto mi capita di vedere il mio anziano padre cercare di destreggiarsi su una tastiera di computer. Lui come me, e a differenza di mio figlio, non è un nativo digitale.

Ci muore sopra come se dovesse essere una scalata in corda doppia.

Eppure a suo tempo è stato un marconista per l’esercito, in giovane età un brillante telegrafista di codice Morse, capace pure di star dietro ai corsi della Nato.

Non so voi, io il Morse l’ho imparato come boy-scout, ma per lui è una lingua con cui ancora oggi parlerebbe a colazione.

Fatelo scrivere un documento di Word e vi odierà per una mattina. Un database e rischiate di beccarvi una carabinata sulle chiappe. Ad aria compressa.

Dove, o meglio quando, la sua linea di intelligenza tecnologica ha divorziato dalla memoria di lavoro?

Non lo so. E non oso chiederglielo.

So quando verosimilmente è accaduto per me.

E fu il T9.

Quella tortura per dita telefoniniche non l’ho mai sofferta. Fu odio a prima vista. E il chiudersi di una linea evolutiva per sempre.

Posso metterci minuti a digitare un sms. Conosco gente che nello stesso tempo comporrebbe l’Iliade per tastiera a 9 toni.

Mi sono procurato un libro.

Che è all’origine di questi sproloqui.

Per i tipi di Einaudi, alla indecente somma di euro sessantacinque, è stato edito “Nebbia”, una sorta di antologia a cura di di Remo Ceserani e Umberto Eco.

Solo un malato di nebbia come me lo avrebbe acquistato, uno che nella terra della nebbia ci è nato, e ancora ci vive, sebbene un centinaio di metri più su, dove già alcune prospettive cambiano.

La nebbia è una malattia. Una malattia dell’anima. Che la rende migliore.

Le da un corpo comprensibile, ma inafferrabile. Permette di capirla senza poterla comprendere, cioè raccogliere.

«La nebbia è uterina. Ti protegge. Legioni di esseri umani desidererebbero tornare nell'utero (di chiunque, come diceva Woody Allen). La nebbia ti realizza questo sogno impossibile. Ti concede una felicità amniotica. Hai la sensazione che forse un giorno uscirai dalla vagina e dovrai affrontare il mondo, ma per il momento sei salvo. E siccome la nascita è l'inizio del percorso che ti porterà inesorabilmente alla morte, la nebbia è la garanzia (ahimè virtuale) che alla morte forse non perverrai. Basterebbe fermarsi lì. Ma proprio perché non sai dove sei, nella nebbia tendi a muoverti per uscirne (che è stolida follia e folle stupidità). Chi ha ventura di starci, vuole venirne fuori. Per questo tutti gli uomini sono mortali».

Questo nella prefazione del brillante Eco.

E lo condivido. Deve essere la cosa più vicina al liquido amniotico che esista. Felicità e incoscienza. Anche se ci si immerge con cuore nero e mente pesante. Lì tutto galleggia.

Ed è limbo. Tutto nella nebbia può essere morto, vivente, o neppure ancora nato.

E’ la situazione fisica esperienziale più vicina in assoluto al mitico gatto di Schrödinger.

La porta sui molti mondi e i molteplici universi paralleli.

E, nella nebbia, la porta è sempre socchiusa. Solo un pazzo la spalancherebbe per morire in un mondo di luce.

Perché la nebbia è il nulla.

Nulla che riempie il nulla.

Come queste parole in questo blog.

4 commenti:

il Gaggio ha detto...

la scrittura T9 ha rappresentato una regressione delle nostre possibilità e capacità di comunicazione
presentata sotto le mentite spoglie di un'evoluzione delle medesime

questa è solo una considerazione fatta a posteriori
a suo tempo fui entusiasta della "innovazione"
quando
poi
mi resi conto che digitando parole di uso comune
quelle davvero di uso comune
tipo "incazzato"
sul display mi usciva una roba del tipo "hobbywbun"
beh, a quel punto, compresi che il T9 non solo ulteriormente impoveriva il lessico
già impoverito di suo per ben altri motivi
compresi anche che omologava il linguaggio
e che il linguaggio che ne scaturiva era completamente avulso da me
e io avulso totalmente a e da "lui"

ma questa è una cosa mia
solo mia...forse


quanto alla nebbia
le tue considerazioni
e quelle tratte dal libro
ok ci sta tutto

anche io vivo in terra di nebbie
e a proposito della nebbia si può dire e scrivere e pensare tutto ed il contrario di tutto
altrimenti non staremmo a disquisire di nebbia
ma di qualcosa d'altro

solo un paio di cose
partendo dal luogo ormai comune secondo il quale "non esiste più la nebbia di una volta"
("purtroppo"...aggiungo)
beh nella nebbia ci si annullava
ma al tempo stesso ci si ritrovava totalmente
nella nebbia ci si perdeva e s'assecondava l'ancestrale (forse ancestrale) desiderio di perdersi
si aveva modo di coltivare l'ancestrale (forse ancestrale) impulso a ritrovarsi
e a ritrovare


ma io penso soprattutto a quei frangenti in cui ci si trovava ad un incrocio
non si riusciva a scorgere le indicazioni stradali
si era costretti a mettere le quattro frecce
a scendere dall'auto
operazione rischiosissima fra l'altro
avvicinarsi al cartello stradale per leggere
"ok...per stradella a destra...per milano a sinistra"
anche se magari quell'incrocio lo conoscevi a menadito
ma nella nebbia anche le certezze più certe possono perdere di consistenza

insomma voglio dire
anzi scrivere
la nebbia ti poneva di fronte alla responsabilità
di una scelta

quella di affidarsi all'istinto
al proprio intuito
o alla propria memoria (che tu sai bene è come se ci si affidasse alla propria razionalità)
oppure ci si poteva affidare ad una mano "superiore"
quella di chi le cose le conosce bene
le cose e le strade
una mano dall'alto che ti poteva far ritrovar la trebisonda ed indicarti la retta via

era un bellissimo frangente
e lo è ancora quando capitano certe notti con la nebbia "di una volta"

era bellissimo scegliere
era bellissimo affidarsi a se stessi
era bellissimo rendersi conto di aver fatto la cosa giusta
ed era parimenti bellissimo realizzare sulla propria pelle e a proprie spese che a volte
spesso
le scelte si rivelavano totalmente erronee
e si rientrava nei luoghi in cui si voleva e magari doveva rientrare
il mattino seguente
quando andava di lusso
dopo aver vagato nel nulla
e nel tutto
per l'intera notte

era bellissimo


non lo so
non credo di aver reso l'idea
mi son spiegato male
mi mancano le parole
sarà colpa mia
sarà colpa del famigerato T9 che ha risicato le mie capacità comunicative
sarà che ho la mente annebbiata

sarà...


ciao

Vitalux ha detto...

Grazie davvero.
Non so se ho capito e se tu ti sei spiegato, ma sappiamo entrambi che non è così importante.
Però cavolo sì:
quelle notti in cui diventava epico il quotidiano, in cui la strada di tutti i giorni era quella di quell'istante, in cui eri l'eroe che tornava e se tornavi a casa, e lo eri anche se non ci tornavi.
Ed eri una divinità se di casa ne avessi trovata un'altra. Che avresti fatto tua.

Andrea ha detto...

Però, è da un po' che non torni a scrivere da queste parti...
Anonimo lettore :)

Vitalux ha detto...

Caro Anonimo Andrea, son tornato.